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Capitolo primo

I preparativi per il viaggio erano ultimati. Avevamo gi approntate due borse di vestiario, con abiti pesanti e calzari chiusi e imbottiti, di pelle di montone, dato che ci stavamo avviando verso la stagione fredda.
Mia madre, che tanto era obbligata con Argidelia dalla quale era stata aiutata e incoraggiata negli ultimi suoi quattro parti, tra i quali anche quello che avrebbe tratto alla luce me, s’era data da fare tantissimo durante l’estate a tessere vesti da uomo per la maestra, perché avevamo convenuto di viaggiare come due compagni di studi o due pellegrini.
Braghe lunghe fino alle caviglie e camicie ampie di colore chiaro per tutti i giorni. E aveva insistito, mia madre, per poter adattare al fisico di Argidelia uno degli abiti da cavaliere di mio padre; ma ella aveva disdegnato quell’offerta ritenendo disdicevole per la sua persona, minuta, il colore scarlatto degli abiti da cavaliere. Non disdegnò tuttavia farsi tessere un abito nuovo nella foggia dei medici della Scuola, color violetto, come era la moda, ché molto di più s’intonava alla sua carnagione.
Io avevo messo da parte alcuni libri che la maestra avrebbe portato seco per ingannare i tempi lunghi della navigazione: una raccolta di poesie di Saffo nella lingua originale che, pur stentando a capire, la maestra non disdegnava leggere. Un trattato sul parto e uno sulle malattie delle donne, di Trotula; il
Passionario di Gariponto; un trattatello di oculistica di Benvenuto Grafeo; infine un Fedone tradotto dal greco di Platone in latino da Aristippo di Sicilia. Ne fece omaggio alla nostra Scuola, alcuni anni prima, re Guglielmo attraverso il suo fido ufficiale plenipotenziario a Salerno, quell’altezzoso di Drengot, che faceva pesare più la sua personalità che il suo rango e che si compiacque consegnarlo di persona al …

 

70525 - All' Ufficio culturale egiziano: "SARACINO" DI RAFFAELE AUFIERO.

Il romanzo presentato mercoledì. Tra i suoi Maestri Ruggero Jacobbi.

di Carlo Rosati


  
Roma - E' stato presentato mercoledì alle 18 presso l'Ufficio Culturale Egiziano libro il "Saracino". L'autore è Raffaele Aufiero, salernitano trapiantato a Roma dal 1977, che ha sempre avuto un amore particolare per il libro. Lo si nota fin dal prologo di questo suo "Saracino", che riporta un mondo fantastico, fatto di letture e di meditazioni, di mestieri e di nobiltà di provincia, scomparsi e veri, come il Monte San Liberatore, che, come racconta Aufiero, "la mia gente chiamava Buturmino". Ma in "Saracino", tra autobiografia e sogno c'è anche la descrizione della sua famiglia o quelle "ebbrezze di leggera libertà", ed anche una delle sue figure ricorrenti, una protagonista di questo libro e dei suoi ricordi, Argidelia, una nobildonna della famiglia Guarna, che lui chiamava maestra, anche se non era una vera e propria maestra, perché non insegnava l'arte medica, tanta cara ai salernitani, ma, come afferma, "l'applicava". E fu proprio questa prima maestra ad insegnarli l'amore per i libri, sottraendolo alle premure della famiglia, che giudicava eccessive, facendolo assumere dalla scuola per la cura dei libri e gestirne il transito tra le teche, dove erano custoditi, e le aule, dove erano richiesti.

Nato a Pagani nel 1953, Aufiero da giovanissimo affiancò il padre Gaspare nella libreria di famiglia. Presto quell'esercizio commerciale divenne il ritrovo di intellettuali e artisti di Pagani, anche se non si trasformò mai in un circolo riuscendo a preservarsi negli anni come associazione spontanea di persone che s'incontravano e discutevano sia di politica che di cultura e di libri.

Una felice esperienza che si è ripetuta a Roma quando Raffaele Aufiero fu assunto presso una casa editrice, nella quale ebbe modo di continuare ad amare, rispettare e onorare la lettura, dedicandosi anche alla scrittura, che aveva già cominciato a praticare all'inizio degli anni '70, sotto la guida solerte degli amici Enzo Pepe e Antonio Vaccaro. A Roma, poi, conobbe e frequentò un grande della scrittura e del teatro come Ruggero Jacobbi, personalità straordinaria di studioso, di critico e di scrittore, particolarmente informato del teatro brasiliano e dell'America Latina, oltre che grande personalità del "Piccolo" di Giorgio Strehler, che lo avviò al giornalismo.

Da quel periodo ha pubblicato più di una dozzina di libri (tra poesia, narrativa e saggistica), centinaia di articoli (di letteratura, di teatro, di cinema, di costume, di politica) e quattordici commedie. Ha realizzato programmi radiofonici per la RAI (servizi culturali per l'estero), ha collaborato con la Curcio (per l' aggiornamento della voce Teatro) e ha ricevuto diversi premi (tra cui quello di "Studio 12" per il Teatro, con Serata berlinese di Anton Cechov.

Tra le sue opere ci sono, tra le altre, DIALOGO CON L'ESISTENZA (poesie), IL TEMPO COME SEGNO (poesie), PIETRO GOBETTI E IL TEATRO DELLA CRISI (saggistica), LE VESTAGLIE DEL BELLI (saggistica), LA CODA DELLO SCORPIONE (romanzo), BRUCIA, CARTAGINE BRUCIA (romanzo breve), DEMOSTENE, OVVERO IL POTERE DEI MAGISTRATI (teatro), PER CERCARE ESMERALDA (romanzo),D'OCCASIONE (poesie), VIVA VIVA IL CARDINALE (romanzo) e questo suo ultimo romanzo "SARACINO", edito dalle edizioni "Studio 12".

   
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GLI STRANI SOGNI

DEL PROFESSOR GIAMBATTISTA VICO

 

 

 

 

 

racconto di Raffaele Aufiero

 

(1996 - nel quarto centenario della nascita di Renato Cartesio)

 

 

 

 

 

 

 

 

Sul selciato appena bagnato da una pioggerellina dritta dritta e rada rada, sconsolatamente primaverile, risuonavano di schicchi lenti e nervosi i passi di un uomo che risaliva senza fretta apparente per via di Mezzocannone.

Nell'agro nitore della sera che toglieva spazio al giorno egli si stringeva, come in un abbraccio, nel suo mantello di lana nero, ancora dignitoso per quanto liso in alcuni tratti, e procedeva a fatica per la non faticosa salita: una fatica non addebitabile alle gambe rachitiche o al respiro affannoso, ma al pensiero. Una fatica tutta mentale, una sorta di blocco psicologico causato da un senso di vergogna più che di avvilimento, di impotenza inespressa e di rancore autolesionistico.

Da quella figura nera, chiamata a raccolta su un centro motore sussultante di scatti a volte sgraziati, emergevano solamente il pallore di un naso che aveva a lungo contrastato le leggi dell'estetica, le regole della simmetria, perdendo; le calze bianche anche se macchiate da qualche schizzo di fango, strette sotto al ginocchio da nastrini di velluto nero; e le fibbie d'argento delle scarpe nuove, opera di mastro Nicola, che brillavano come grosse lucciole, in un alternarsi di passi sempre più monotoni, sempre più refrattari.

Chi lo conosceva bene avrebbe comunque garantito che quella sera il professor Giambattista Vico, titolare della cattedra di retorica presso la gloriosa università di Napoli, non fosse per aspetto, portamento e umore diverso da quello abitualmente frequentato ed esperito.

Una pena nuova, infatti, un cruccio diverso, quella sera d'aprile 1722, tendevano a stigmatizzare sulle costanti del suo carattere la traccia di un'ulteriore sconfitta, per lui che ne aveva già subite tante, il tremito nervoso di una nuova, inaspettata umiliazione.

Non appena giunse in cima a via di Mezzocannone, dove la strada comincia a slargarsi nella piazza di S. Domenico Maggiore, il professore si fermò di scatto, anzi si irrigidì in una posizione di attesa sospettosa e guardinga, diffidente quasi, prima di voltarsi e lasciar scivolare un'occhiata piena di livòre per tutta via di Mezzocannone. Sbuffò con ostentata malagrazia e riprese il suo cammino per via S. Biagio dei Librai, in quella strada dove aveva abitato giovanetto e dove, ogni volta che la percorreva, si ricordava del padre libraio che per primo gli trasmise quella indemoniata passione per i libri. Sotto un maleodorante cortile rivide mastro Nicola, il solachianiello che fin dal mattino era lì ad attendere al suo lavoro, piegato su uno sgangherato banchetto disseminato di piccolissimi chiodi che quelli del mestiere chiamavano semenzelle.

— State ancora qui, mastro Nicola? — osservò con benevola compassione.

— Chi nu' fatica nu' magna, prufessò! — gli rispose con collaudata sapienza mastro Nicola, sbadigliando ripetutamente nella fioca luce di una candela che propiziava il suo lavoro serotino, fino alla tarda ora cui era solito indugiare tra una tomaia da ricucire o una suola da ribattere.

Il professore indulse ancora nel suo sguardo compassionevole, complice di quella prova di miseria esibita con dignità e che mastro Nicola affrontava da una vita, prima di salutarlo con un cenno della mano e sentirsi rispondere: — Bona notte, prufessò!

Tuttavia non si protrasse per molto quel suo andare sdegnato, quello svogliato e renitente calpestìo sul selciato, perché, dopo aver contato neppure altri trecento brillii alternati delle fibbie d'argento, il professore si ritrovò sull'uscio di casa. Osservò la porta della sua abitazione con distacco prima, con circospezione poi, come a volersi sincerare che quella toppa era violabile solo ed esclusivamente da quella grossa chiave in suo possesso, appena cavata da una tasca interna della marsina e che, ne era sicuro, non avrebbe imposto nessuna resistenza allo scatto della serratura.

Una, due, tre mandate e il buio appena attenuato dalla luce di un ceroceno lo risucchiò dentro, nell'accomodante tepore della sua casa. Ancora in preda all'insolito fastidio, o tedium indifferentiae, si levò il mantello di dosso e lo buttò su una panca, senza ripiegarlo, come invece era sua abitudine. Accese altri tre ceroceni perché amava vederci bene -essendo anche un po' miope- dappertutto. E solo dopo aver verificato di essere solo cominciò ad imprecare, ma sommessamente: — E mannaggia 'o riavulo! Un'altra giornata persa... e se penso a quanto lustro ho dato finora a questa Università! Me mangiass' 'e mmane a muzzeche! Ma poi, di che mi lamento io, io che sono stato sempre uomo di poco spirito d'intorno alle cose che riguardano le utilità. Mannaggia a mme! Ma questa città e questa epoca non le meritano tante apprensioni. Ma quando uno ce l'ha dentro, nel profondo, il tarlo, che scava; la sfrenata passione per lo studio, come può avvilirsi così per una miserabile contrarietà?

Il provvidenziale rumore di un cancello che cigola aveva però subito chiuso il rubinetto delle amarezze. Il professore andò ad aprire la finestra, quella che prendeva luce dal vicolo Grotte della Marra e, sul pianerottolo della casa dirimpetto, scorse un'ombra che si agitava nel flemmatico bagliore della luna.

Era l'ombra, a lui familiare, del padrone di casa, tale don Tarciso 'o sapunaro, dal mestiere che aveva esercitato per più di cinquant'anni: il mestiere di vendere saponi, o meglio, di cederli in cambio di roba smessa o inutilizzabile, di suppellettili consumate, di oggetti obsoleti.

— Non dormite ancora, padrò? — domandò all'ombra con un tono di ironica deferenza.

Don Tarciso continuava a farfugliare parole e frasi sconnesse come pronunciate da persona sofferente o aduggiata da qualche dolore remoto. Così il professore fu costretto, vuoi per innata cortesia, vuoi per acquisito senso di diplomazia, vuoi per cristiana rassegnazione a farsi carico delle altrui ambasce ed intrattenere l'insonne dirimpettaio in una conversazione dove le parole dell'interlocutore erano solo da indovinare.

— Non vi sentite bene stasera?... Avete mangiato pesante? Ho capito, e non gridate che svegliate tutto il vico! Zuppa di fagioli con cotiche? E quelle sono pesanti, a sera, sapete... e un bel quarto di abbacchio, pure? Beato voi!... E come vi volevate sentire? Io per fortuna sono digiuno da stamattina e forse resterò così con l' alluscia

fino a domani se mia moglie non mi ha stipato qualcosa da mangiare. Ora vi devo lasciare. E' tardi... e tenetevi i vostri malanni con dignità — poi, rientrando, aggiunse — perché quelli vi vengono dalla schifosa opulenza nella quale vi sciasciate e non dalla povertà!

Riaccostò le imposte sui dolori del "povero" don Tarciso e rientrò in casa. Con tutti i soldi che tiene! pensò, borbottando tra sé con malrepressa invidia, mentre cominciava a cercare nella dispensa e sul piano della cucina qualche avanzo della cena.

— Cos'è questo? — si domandò ad alta voce, imbattendosi in una pignatta ormai fredda. Scoprì il recipiente del tiesto di coccio, indispensabile strumento per conservare la fragranza, l'odore e il calore della pietanza appena cucinata, e osservò con indifferenza quasi di abitudine, che conteneva minestra di fagioli, senza cotiche -capì dall'odore- ma con cipolla. Già, perché una minestra senza cipolla è come un'orchestra senza tamburo, soleva ripetere alla moglie Caterina ogni qualvolta esprimeva il desiderio di guastare quel piatto di cui, notoriamente, era cannaruto.

Un rumore dalle scale che mettevano in comunicazione la cucina con la stanza da letto, al piano superiore, attrasse la sua attenzione, anzi la distolse dalla pignatta con minestra. Al rumore poi era seguita subito l'apparizione di una bambina, tutta infreddolita, assonnata e stipata in una camicia da notte di alcune misure più piccola di quella che la sua figura già formata avrebbe abitato con meno sacrificata grazia.

Il professore l'accolse con un laconico: — Che c'è, nennè?

La bambina corse a farsi abbracciare dal padre, che non lesinava quel genere di effusioni, perlomeno con i figli piccoli, e gli sussurò all'orecchio: — Nun pozzo durmì, papà!

— Pecché?

— Tengo 'na paura dint' 'e rrecchie e dint' all'uocchie.

— Addo'? Ne', ma che stai dicenno?

— Ha da essere 'o munaciello che me fa paura. Me vene a 'nzurdà 'a notte!

Il professore acennò ad un gesto spazientito e riprese: — Ma qua' munaciello? Ca nun ce stanno 'e munacielle. Che te vai 'nfrianno 'nta sta capuccella? E mammà dorme? E 'e frate tuoje?

La figlioletta, per niente rassicurata, rispose: — A Mammà 'e sbatteva 'a capa. T'ha lasciata 'a menestra anatto. Ma tu pecché si' accussì attenduto? Tien' 'a faccia 'e 'nu lunzulo asciuto mo' mo' ra' culata.

— Comme so'?

— Comme si tenisse ciente vasule 'e prete 'ncoppo 'o core!

Quell'apprensione della figlia smosse nel professore la tenerezza nascosta o inibita dalla scorza della sapienza: — No, so' sulo stanco. Ma tu nun t'jè preoccupà. Vattenne a cuccà! I' mo' mangio chell' ca mammà m'ha stipato anatto e me vengo a cuccà pure i'... ca si vengio 'o cuncorso quante cose hann' 'a cagnà!

Alla figlioletta non erano sfuggite quelle ultime parole che il professore aveva pronunciato come tra sé e domandò : — C'ha da cagnà?

— Cagna, cagna. Cagnarranno tanti ccose. Pecché tenimme cchiù sorde e 'nce putimmo allargà. E accussì pozzo accattà 'a ciuffuniera nova pe' mammà e pozzo penzà a' dote pe' te. Mo' te staie facenna grossa. 'O tiempo passa. Staie addiventanno signurina...

— So' già signurina, papà — lo interruppe Nennella con una punta di orgoglioso risentimento nella voce.

— Ovvì?! Je' penzà a te marità. Cu 'nu buonu guaglione ca te vo' bbene. Ma pe' te marità 'nce vonno 'e sorde, 'a dote, qualche commodità, e i' m'aggia 'ngignà 'a ddo' l'aggia fà ascì. Ma tu staie rurmenn' allerta. Vattenne a cuccà, và' Nennè!

Uscita la bambina, strascinando il suo corpicino nelle vecchie ciabatte, il professore si passò più volte la mano sulla faccia come a voler diradare quella patina di sonno o di stanchezza della quale si sentiva intriso e si mise a sedere allo scrittoio. Con un'occhiata rapidissima si accertò che tutto fosse in ordine, come lo aveva lasciato uscendo di casa al mattino, poi trascinò verso di sé, fino a farsene sfiorare il petto, un fascio di carte raccolte in una copertina di cuoio rosso legata con nastrini di stoffa e cominciò a sciglierne i legacci, quando, all'improvviso, una nuvoletta di fumo guizzò dalla custodia e si materializzò in una sembianza umana in piedi, accanto allo scrittoio: un uomo piccolo di statura, dal naso lungo e due occhi incandescenti, arrapati di sapere, avrebbe detto il professore.

Per niente stupito, anche se un po' perplesso, il professore esclamò al nuovo venuto: — Voi, voi qui? monsieur delle Carte, o Cartesio, come vi compiacete farvi chiamare nei salotti e nelle accademie, per non dire all'Università.

— Sono venuto a tenervi compagnia, caro collega — rispose l'altro. — In un momento in cui il conforto di una persona che vi stima non può esservi che gradito.

— Siete cortese, monsieur, ma potevate farne a meno.

— So bene che avete delle resipiscenze nei miei confronti, nonostante del mio pensiero vi siate ben alimentato negli anni giovanili, — e ad un cenno di diniego del professore aggiunse con più veemenza: — Suvvia, ammettetelo! Ma poi, vedete, non è colpa della mia opera -sebbene d'essa è merito e virtù- l'essersi propagata nelle angustie del vostro pensiero, non del vostro personale, intendo, ma di in quello degli uomini che fanno gli eruditi in questa città, per illuminarlo.

— Ma quale illuminazione! — sbottò il professore. — Quelli hanno pigliato asso pe' fiura!

— Pardon? Mon ami, non comprendo.

— Scusate tanto. E' un modo di dire. Vedete, i miei illustri concittadini eruditi, come li chiamate voi, quelli che adeguano il loro al vostro pensiero, tendono a confondere la chiarezza con la verità, l'immediatezza con la concentrazione, affibbiandovi la paternità e la responsabilità di tale metodo.

— Lo so. E voi, mon ami, non mi perdonate di essere riuscito a concentrare così tante riflessioni, prioritarie e indispensabili per qualsiasi sistema logico, in così poche, brillanti ed essenziali pagine, quelle che costituiscono il mio libro più famoso: IL DISCORSO SUL METODO. Ma vedete, io non ne potevo più, ad un certo punto, di torrenziali trattati, di logorroiche summae e mi sono voluto scrollare di dosso il medioevo.

Punto nell'orgoglio il professore voleva mettere una distanza ben profonda tra lui e il suo illustre interlocutore: — No, monsieur. Vous ete trompé! Non è l'invidia che mi fa parlare così, ma una valutazione più profonda e complessiva sul come e sul dove ha portato l'ossequio indiscriminato ai vostri precetti. Qui a Napoli, dovunque vi giriate, sono tutti cartesiani, e lo sono diventati nella velleitaria pretesa di liberarsi dai pantani del dogma, ma come tutti i velleitari ci sono finiti dentro nel pantano, a capofitto, ignari e in errore.

— Non vi sembra di essere troppo severo?

— Pane al pane, monsieur. I vostri ragionamenti mi sono risultati vigorosi nella gnoseologia ma fallaci nell'ontologia. Un abbaglio al quale il pensiero non ha saputo sottrarsi.

Toccato, ma non per questo propenso ad arrendersi, Cartesio pensò di dover suffragare la bontà della sua posizione intellettuale con ulteriori attestati: — C'è un'altra causa a tutte le conseguenze che mi opponete, una causa molto remota: vedete, fin da ragazzo, da studente, fin da quando mi resi conto che la logica, i suoi sillogismi e la maggior parte delle sue regole servono piuttosto a spiegare ad altri cose che già si sanno, io, dicevo, prendevo interesse soprattutto alle matematiche a causa della certezza e dell'evidenza delle loro ragioni, ma tuttavia non ne rilevavo ancora il loro uso e, pensando che esse non servissero che alle arti meccaniche, mi stupivo che, essendo i loro fondamenti così stabili e solidi, non si fosse costruito su di essi niente di più elevato.

— E già, monsieur, come si poteva reggere la sostanza sul numero? Anche Pitagora commise lo stesso errore, illustre delle Carte.

— Oh, è storia vecchia codesta, e non onora la mia figura né rende ragione al mio pensiero. Perché quando io pervenni alla conclusione di essere una sostanza la cui essenza o natura consiste nel pensare, lo feci a prezzo d'intere nottate di riflessioni, consumate cullandomi nei dolci climi d'Olanda, e non una presa di posizione per mandare all'aria il pensiero dell'umanità, come fanno taluni che demoliscono tutte le case di una città al suolo al solo scopo di rifarle in altro modo e rendere le vie più belle. Sì, è vero, spesso ho ripetuto "in malora gli antichi!", appellandomi al buon senso innato nelle creature dell'umanità, perché nella maggior parte dei casi, lette poche righe, guardate le figure, essi, gli antichi, hanno rivelato tutto, perché il resto fu aggiunto per riempire la carta.

— Non vi pare eccessiva questa conclusione, pretenziosa, anzi, pretestuosa? Contro la storia.

Ma il signor delle Carte non voleva affatto saperne di Storia, e montò subito in collera: — Io confesso che ho sempre posto il più grande piacere dello studio non nell'udire le dimostrazioni altrui, ma nel ritrovarle coi miei mezzi e avendomi questa cosa allettato, tutte le volte che qualche libro prometteva nel titolo un nuovo ritrovato, moi, prima di leggere oltre, facevo la prova, se per avventura non riuscissi ad arrivare , mediante una congenita perspicacia, a qualcosa di simile...

Un ciabattare sordo per le scale impedì al signore delle Carte di completare il suo discorso, già chiaro però al professore in tutte le sue componenti, sia quelle appena declamate che quelle taciute, ma non gli impedì di ossequiare l'ospite: — Mon Dieu! E' ora che vada, mon ami. Au revoire, anzi tout à l'heure!

— Se' se', arre vuare — gli fece eco il professore mentre la nuvoletta veniva risucchiata dal libro e dalla porta della cucina entrava Caterina, straripante di malcelata apprensione per il marito il quale giustificò prontamente il suo ritardo: — Ho tenuto tanto da fare oggi!

La discrezione ebbe il sopravvento anche sulla natura della donna proclive all'impiccioneria, perciò Caterina si limitò ad osservare: — T'aggio astipato 'o minestrone. Ma mo' è friddo. E 'a cucina è già stutata. Si 'o bbuò, te vaco a fellà 'nu poco 'e salame. E' chelle 'e Vatolla.

— No, Catarì, nu' tengo genio 'e niente. So' stanco. Aggio stato allerta tutta 'a jurnata. Nu' 'nce penzà a me, vattenne 'a cuccà.

    • Ma i' steve cuccata, po' t'aggio 'ntiso parlà e so' scennuta abbascio. — Si

guardò intorno con fare sospettoso e riprese: — Ma cu chi stive parlanno?

Impermalito dal tono inquisitorio della moglie, ma senza perdere la calma o tradire il minimo imbarazzo, il professore rimandò la domanda: — Parlanno? M'jè 'ntiso?

— E comme! — insistè la moglie. — E pure forte. Cu uno ca teneva 'a voce 'nu poco... 'nu poco streveza... 'e femmeniello.

— No, Catarì, ti sarai 'nzonnata.

— Macchè! — riprese con il tono inquisitorio di prima. Ma poi, riflettendo che sarebbe comunque uscita sconfitta da quella contesa e avvinta alle responsabilità consolatorie di moglie, cambiò discorso: — Mo' t' 'o fell' 'nu poco 'e salame. E pure 'nu poco 'e pane.

Il professore però, risoluto, come in preda ad un'invasatura mistica o colto da improvvisa illuminazione ritornò sull'argomento, e, convinto di mettere a tacere per sempre i sospetti della moglie aggiunse: — Ah, è overo! Comm'aggio trasuto e aggio arapruta 'a 'mposta, 'nce steve 'o patrone, chillo rimpetto, ancora scetato, cu 'nu dulore 'e panza ca pareva pigliato ro' diavulo, affacciato a' 'o balcone e l'aggio salutato.

— E isso?

— E isso... ha rispuosto, che domande!

Caterina tuttavia non aveva affatto intenzione di demordere: — Ma qua' patrone. 'A saccio 'a vocia soia. No, chella era 'na vocia streveze, m'ha paruta franciosa... e pure 'e femmeniello.

Un bussare alla porta secco e deciso, per quanto debole, allentò quella spiacevole tensione. Caterina si avvicinò al marito brandendo il coltello col quale aveva affettato il salame e gli domandò: — Chi sarrà a chest'ora?

— E che ne saccio? Va' vire! Se hanno bussato a quest'ora è sicuro qualcuno che ha bisogno. Si no, n'avesse tuzzuliato.

Caterina si accertò che a calcare l'uscio dall'altra parte della porta chiusa non fosse un malintenzionato prima di aprire a Don Paolo, l'anziano gesuita, reggente del collegio annesso alla chiesa del Gesù, che, entrando, salutò facendo un gesto come di benedizione e disse: — Ho visto la luce ancora accesa e mi sono detto: il professore è tornato. E' il caso che mi fermo un momento per salutare — e richiuse la porta alle sue spalle.

Il professore, tradendo la sua impotenza di fronte all'ineluttabilità di quell'evento, ma anche manifestando una certa soddisfazione per la provvidenzialità dell'intrusione, accolse l'ospite che era omone alto e grasso, dalla faccia rubizza, con un sorriso educato, ma non entusiasta: — E avete fatto bene! Ma se volete sapere di quell'incarico di professore di diritto a 600 ducati l'anno, ebbene, forse, a riflettere su come sono andate le cose al concorso, me lo posso scordare.

Don Paolo, per niente meravigliato, finse ugualmente sorpresa: — Ma voi che dite?

— E' così, purtroppo — aggiunse con una nota di rimpianto nella voce, il professore, mentre rapidamente contabilizzava tutti quei miglioramenti economici che, essendo andato male il concorso e disperando di ottenere l'incarico, non avrebbe potuto più concedere alla sua famiglia.

— Doppo tanto studio! — Intervenne anche Caterina che di queste cose poco ne sapeva, ma consapevole ugualmente dei sacrifici del marito: — Se sosse 'e ccinche 'a matina e nun se cocca mai primm' 're ddiece! Don Paolo, voi che dite, volete rimanere a mangiare con mio marito? Così gli fate compagnia. C'è solo un poco di pane e 'na fella 'e salame 'e Vatolla.

Don Paolo accettò senza esitare: — Va bene, donna Caterina. Ma proprio per farvi un favore. Tra l'altro non avevo ancora cenato!

— Ecco, appunto! — E lasciati soli i due uomini ritornò verso la cucina a preparare la cena.

— Professore, io credo che Napoli non vi merita. — Don Paolo aveva assunto un piglio ieratico, quasi: — E i tempi non sono maturi perché questa città possa rendersi conto del valore vostro e del vostro insegnamento. In questa città le cattedre e i salotti straripano di cartesiani velleitari e di giannoniani ottusi, così anche ai tribunali e dovunque cammina la strada del pensiero: uno si era illuso di trovare Dio nella sua mente, l'altro fa proseliti con le sue teorie materialiste e anticlericali. Santo Iddio! Ma una notizia buona ho da darvela. Appena appena arrivata.

— E dite, allora.

— Pietro Giannone lascia Napoli. Ormai tutti i ponti della tolleranza sono caduti tra lui e il popolo. Non lo sopporta più nessuno. E dopo il disaccordo con le autorità la sua posizione si è venuta vieppiù aggravando. Tutta Napoli gli addebita il ritardo del miracolo di S.Gennaro e le conseguenze funeste che questo ritardo implica per la sorte della città e dei suoi abitanti. Il popolo è convinto che le parole di Giannone contro i preti abbiano sdegnato a tal punto il santo da indurlo a ritirare la sua protezione dalla città.

— Ma col vicerè ha più parlato? — si informò con calore il professore.

— E come no! Ma non ne ha sortito niente di buono. Ormai E' funa rotta, caro Vico!

— Dovete pensare, caro Vico, che quell'uomo è diventato tanto impopolare che un giorno, passando in carrozza per piazza della Carità, fu aggredito da una tale calca di gente da essere costretto a rifugiarsi nel vicino convento di S. Nicolò... E don Nicola Caracciolo, che voi conoscete, il marchese dell' Amorosa, reggente della Vicaria, raccontava di aver trovato in piazza Nido un quadro nel quale era dipinto il Giannone ch'era frustato sopra un asino.

— Io invece sono al corrente di un fatto ancora più grave. Sentite: un professore di diritto, mio stimatissimo collega a Mezzocannone, molto rassomigliante al Giannone venne quasi fatto a brani davanti al Palazzo Reale.

Caterina, che aveva origliato, intervenne allibita: — Giesù e Maria Addulurata! Che munno 'nfame. Ma che rè stu Giannone, cristiano comme a nuie o satanasso co' 'e ccorne!?

— Le disgrazie altrui, fossero anche quelle di Giannone, con il quale non ci teniamo in simpatia, non hanno la capacità di consolarmi di nessuna afflizione, anzi mi intristiscono ancora di più — sentenziò il professore, addolorato.

— Certo, certo! Non sarebbe affatto cristiano, poi, compiacersi dei mali altrui. E ditemi un po', professore, quel Caravita, quel Domenico Caravita, del quale mi parlaste così bene e diffusamente, come di un vostro sostenitore oltre che estimatore?...

— Oh, uomo nobilissimo ed eccellente di animo, ma nulla ha potuto, neanche lui!

Il professore, lo sguardo perduto nel vuoto, trasse verso di sé il fascio di carte nella custodia di cuoio rosso, ne accarezzò la superficie, con voluttà e aggiunse:

— Tuttavia i miei crucci e i miei dispiaceri si alienano nella consolazione di questa mia creatura alla quale pure attendo tra mille difficoltà e tra strepiti domestici. Sono quasi giunto alla fine delle mie fatiche, sapete?

— E pensate basti questo pur ponderoso lavoro ad offuscare la fama del francese e a togliere su di voi le attenzioni avare dei napoletani?

— Vedete, Don Paolo, questa mia Scienza Nuova è una storia delle umane idee -non un trattatello- sulla quale deve procedere la metafisica della mente umana. E questa SCIENZA che nel titolo figgo, viene nello stesso tempo a descrivere una storia ideale eterna, sopra la quale corrono in tempo tutte le nazioni ne' loro processi, stati, decadenze e fini. Vi pare poco? — Poi si rivolse alla moglie che stava portando loro da mangiare e cambiò argomento: — 'E creature, Caterì, dormono? Gennaro ha studiato? Annetta, l'è passata 'a tosse ... e 'Gnazio?

E Caterina, non riuscendo più a trattenere il nervosismo, covato l'intera giornata, esplose: — Dormono, dormono, sì!

— Ma che tieni? Si' dispiaciuta pe' me?

— Mo' nun te l'avesse ritto, ma stammatina è venuto 'o messo d' 'a Vicaria — e si lasciò andare ad un pianto irrefrenabile.

— 'Nata vota? Sempe pe' 'Gnazio?

— E pe' chi se no?

Toccò ancora una volta a Don Paolo alleviare quelle umane sofferenze; del resto faceva parte del suo ministero: — Non drammatizzate. Vostro figlio è un ragazzo un po' esuberante, ecco tutto. Ma in fondo è buono di carattere.

— Ma tene 'a capa a niente — spiegò così la propria apprensione Caterina.

— Tutti i ragazzi sono uguali, alla sua età. Non vi dico dei nostri, al collegio — addolcì Don Paolo.

Ma il professore non era d'accordo: — Nun è overo. Anni fa mi è capitato di esaminare per l'ammissione all'Università, un giovane napoletano. Certo de' Liguori, mi ricordo ancora il nome: Alfonso de' Liguori, figlio di cavaliere, che all'età che ha oggi mio figlio Ignazio difendeva cause ai Tribunali. E voi mi dite che sono tutti uguali? Meno male che tengo a Gennarino, studiosissimo, anche se poco esuberante.

Don Paolo assaggiò il salame e si complimentò con donna Ceterina: — Buono, veramente buono, questo salame di Vatolla! E voi, professore, scommetto che ci avete lasciato la nostalgia in quel paese, vero?

— Beh, quelli furono anni di studio e di riflessione, nella pace della campagna cilentana, che non potrò mai scordare.

— Eppure, vedete, io che vi conosco da vent'anni non vi saprei immaginare lontano dalla città, dai suoi clangori, dalle beghe accademiche, da quelli che voi dite "strepiti domestici", ad attendere ai vostri studi. Penso che nei vostri scritti ci siano tanti vagiti di bambini e tanti strepiti domestici quanto sapienza ed erudizione ad un tempo.

— Non avete torto. con tutto il rispetto e la devozione per Don Geronimo Rocca, mio benefattore e protettore, a Vatolla mi sentivo isolato. Catarì, ricordami che domani vado alla Vicaria.

Don Paolo capì l'antifona e si preparò al commiato: — E' tardi. Vi lascio, adesso. E dormite bene, caro Vico. Buona notte, donna Caterì. — Impartì loro la benedizione e uscì.

— Pure questa è andata — commentò amaro il professore, ma non si riferiva certo all'uscita di Don Paolo da casa sua. — Catarì, vattenne 'a cuccà! Io voglio stare un altro poco a pensare. Forse mi metto a fare qualche conto. I debiti non finiscono mai in casa Vico!

Uscita la moglie, il professore cominciò a pensare ad alta voce, come se stesse parlando con qualcuno: — Città vigliacca e ingrata! con i suoi figli. E' comm' 'a 'na sanguetta. Ti succhia tutte le energie, tutte le risorse, anche tutti gli entusiasmi per poi misconoscere il tuo valore quando addirittura non lo offende e lo mortifica. Quel pover'uomo di Giannone non se lo aspettava un trattamento del genere. Non che mi fosse stato mai simpatico: altezzoso e impettito, lustrato da tutti i notabili della città solo perché sputa addosso ai preti. No, pe' carità. Era 'nu poco sagliuto 'e capa! Ma che sia lui con i suoi libri a nu' fa squaglià 'o sanghe 'e San Gennaro, come hanno voluto far credere al popolo, ci sta proprio la malafede. Quella di quanti, subdoli e intriganti, più di me e peggio di me nun z' 'o firano! Ancora non vogliono capire che le false religioni non nascono da impostura altrui ma da propria credulità. Dove andrà a finire questa nostra città? Bella e infedele, come una puttana dei Quartieri! Senza una dignità, andrebbe con chiunque pur di far quattrini!

Poi il sonno cominciò a pesargli sulle palpebre fino ad abbassargliele e a fargli rivedere il signore della Carte, uscito dal libro come nuvoletta di fumo e ricomposto in sembianze umane.

— State un'altra volta qui, monsieur Delle Carte?

— Ho pensato aveste ancora bisogno di compagnia, mon ami.

— E certo! n'aggio avuta poca oggi!

— Pardon?!

— Scusate, dicevo così per dire, tra me, sapete. Siete comunque benvenuto, sempre che siate disposto ad accettare gli scarti del mio umore atrabiliare. Ma, vedete, io, da bambino, caddi dalle scale di casa: tutta 'na tesa 'e grare, e jette ca capa 'nterra. Che male! Stetti per molti giorni tra la vita e la morte. Non vi dico le preoccupazioni di mio padre e mia madre. Poi, per fortuna, per intervento di San Gennaro, rinsavii -sarebbe stato meglio di no, forse- comunque, eccomi qua! col mio carattere ombroso, taciturno e nevrastenico.

— Vedete come è lieneare, chiaro, conseguenziale? Causa-effetto. In questo, mom ami, abbiamo esperienze comuni.

— Ma faciteme 'o piacere!

— Io, pensate, sono nato da una madre che pochi giorni dopo avermi dato alla luce morì di un mal di parto cagionato dai dispiaceri. Avevo ereditato da lei una tosse secca e un pallore che conservai fino all'età di più di vent'anni e che facevano sì che i medici mi condannassero a morire giovane. Comunque, ve lo dico sinceramente, il vostro male non è solo in quella caduta dell'infanzia. Voi siete un perenne deluso, deluso di come vi trattano i "sapienti" di questa città, deluso dall'ingratitudine dei vostri stessi concittadini. E' una terra amara, questa vostra Italia. Io, vedete, dopo una, per fortuna breve, parentesi giovanile non ci sono più tornato. Ho sempre preferito vivere tra la folla di un gran popolo attivissimo e più curante dei propri affari che curioso di quelli altrui, dove potevo, senza mancare di alcuna comodità, offerta dalle città frequentate, vivere altrettanto solitario e appartato quanto nei più remoti deserti. Già, starei proprio male qui, a Napoli specialmente. Neanche morto!...

— A me invece pare che voi, qui, proprio a Napoli, da morto ci state magnificamente — osservò non senza sarcasmo il professore.

— So che non vi consola, ma anche io, ai tempi miei, nonostante quelli che si sogliono definire i miei successi mondani, nonostante fossi diventato addirittura il protetto della regina di Svezia, mi dovetti scontrare con l'ingratitudine, a volte con il malcelato rancore di un vecchio amico: quel padre Mersenne, dei frati minimi, che fu mio amico, confidente, consigliere...

— 'O verite? Andate a fidarvi dei preti!

— Oh, non siate ingiusto. Non sono poi tutti uguali — rettificò il signore delle Carte. — Io ritenni utilissimo, e non ho mai ritrattato questa mia convinzione, aver studiato l'intero corso di filosofia come si insegna nelle scuole dei gesuiti prima di intraprendere l'elevazione del proprio spirito al di sopra della pedanteria, per diventare veramente sapienti. E devo rendere onore a questi miei maestri, e dire che non c'è luogo al mondo in cui io giudichi che la filosofia si insegni meglio che a La Fleche.

— Beato voi che avete così nobili e accrescitivi ricordi. A me, del mio noviziato giovanile, restano solo affetto, devozione e gratitudine per i pochissimi e sinceri maestri che con paterna dedizione mi guidarono fino alle soglie della cattedra di retorica, quella che tuttavia mi onoro di tenere, nonostante le ristrettezze economiche che m'impone. Come potrei dimenticare le premure e i consigli di Francesco Verde, di Felice Aquadies, di Nicolò Maria Giannattasio e di monsignor Giuseppe Ricci?!

— Chi ci ha aiutato nel nostro cominciamento merita più del nostro affetto, essendo egli concausa dei nostri successi.

— No! vedete monsieur, io credo che tutto quello che sono, poco, forse, a Napoli, dove ogni giorno mi scontro con l'ipocrisia, l'infingardaggine e l'inettitudine della mia gente, lo devo solo e unicamente a me stesso. All'assoluta caparbietà con la quale ho atteso a questo studio immenso che finalmente sto per dare alle stampe. E dove, contrariamente alle vostre conclusioni, io muovo da un principio affatto diverso, ma non meno chiaro ed evidente del vostro e cioè: ove avvenga che egli fa le cose esso stesso le narri, ivi non può essere più certa l'istoria; citazione dal mio libro alla quale ho conferito il vezzoso appellativo di degnità. L'istoria, perciò, monsieur delle Carte, è motore dell'esperienza umana, non la consapevolezza del pensare individuale. Ed è questa mia teoria ad avvalorare i progressi della storia umana.

— Quali progressi, mon ami?

— Quel procedere nel tempo dove gli uomini prima sentono senza avvertire, dappoi avvertono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura! — Si fermò un attimo a meditare sulla sua prolusione, della bontà della quale si convinceva ogni volta che gli capitava di rileggere il passo e riprese: — In queste poche, semplici, evidenti degnità ho cacciato tutta la mia cospicua sapienza, monsieur!

Ma il signore delle Carte non demordeva e con protervia oltre che con compiacimento aggiunse: — Allora è il caso che vi chiarisca anche il mio cominciamento, affinché in esso possiate discernere non gli equivoci fino ad oggi perpetrati, ma quello che io intendevo trasmettere. Vedete, mon ami, a guisa di uomo che cammina solo e nelle tenebre io presi la risoluzione di andare così lentamente e di usare tanta circospezione anche a costo di avanzare pochissimo: mi sarei guardato però dal rischio di cadere precocemente. Così, per il fatto che i nostri sensi talvolta c'ingannano, io volli supporre che non esistesse alcuna cosa tal quale essi ce la fanno immaginare; e perchè vi sono degli uomini che nel ragionare si sbagliano, anche sui più semplici argomenti di geometria, e vi fanno dei paralogismi, io, giudicando di essere soggetto a sbagliarmi non meno di qualunque altro, respinsi come false tutte le ragioni che prima avevo prese per dimostrazioni: e infine, considerando che anche tutti i pensieri che abbiamo nella veglia possono venirci egualmente quando dormiamo, senza che alcuno sia per sé vero, mi decisi di fingere che tutte le cose che m'erano potute entrare nella mente non fossero più vere delle illusioni dei miei sogni. Ma subito dopo io osservai che, volendo così giudicare falsa ogni cosa, bisognava necessariamente che io fossi qualche cosa; e notando che questa verità: io penso dunque io sono, era tanto ferma e sicura che tutte le più stravaganti supposizioni degli scettici non erano capaci di scuoterla, io giudicai di poterla accogliere senza scrupolo come il primo principio della filosofia che cercavo.

— Già, ma avete fatto confusione tra verità e conoscenza... — ebbe appena il tempo di opporre il professore.

— Se gli uomini intendessero il significato delle loro parole non potrebero mai dire senza bestemmiare che la verità di qualche cosa precede la conoscenza che Dio ne ha, poiché in Dio è tutt' uno volere e conoscere; questa è la mia estrema convinzione a riguardo, che vi affido, mon ami, e che io sia il primo o l'ultimo a scrivere le cose che scrivo mi importa pochissimo, purché siano vere. Ma ora me ne devo proprio andare. Adieu, mon ami!

La nube dalle sembianze umane venne risucchiata dal libro e il profesore rinvenne da quello stato di torpido abbandono. Si alzò, si stiracchiò a lungo e come a continuare quella conversazione che a lui era parsa un sogno riprese a meditare ad alta voce. — Se n'è gghiuto, finalmente. Non ne potevo più. Se l'è 'mparata bona 'a lezione de' gesuiti. Come no! Quella sua tendenza alla dissimulazione, per carità onestissima, quella tortuosità di atteggiamenti per sottrarsi alla morsa dell'avversario, quella prudenza ambigua anche se spesso ammantata di stoico riserbo... se l'è 'mparata bona 'a lezione! Quello che è peggio e che i francesi gli andranno appresso e rivendicheranno per loro stessi quella certezza a tutti i costi che in filosofia è rigore mentale e niente altro, ma che applicata alle cose umane, alla condotta civile diventerà solo boria, vano orgoglio e presunzione! E m'è zumpata pure 'a nuttata. E mo' chi rorme cchiù!

Si accostò alla finestra e la spalancò. Un fiottto di luce radente lo colpì agli occhi mentre l'alba mite e rosseggiante si tuffò con tutte le sue fragranze primaverili nella casa. Sul balcone dirimpetto c'era ancora l'insonne padrone che andava avanti e indietro.

— Padrò, e voi state ancora lì? Ah, già, la cotica... No, io no... io Cartesio. No, non è cosa che si mangia. Mi ha fatto uscire pazzo con quella sua idea fissa: cogito ergo sum. Che vuole dire? Ve lo spiego 'n'ata vota. No... no cojto ergo sum, magari, vuless' 'o cielo! Sì, sì, lo so ca tentite 'a zampogna mmocca. Cogito, cogito, vuol dire penso. Ma il cogito è una certezza della mente perchè si fonda sulla coscienza dell'esistere individuale, non è una verità scientifica come lui vuol far credere... e ha fatto credere a tanti, invece... No, padrò, non sono geloso di lui, né lo invidio. E non porto rancore per nessuno, neppure per questa mia città che preferisco pensare non ingrata, bensì solamente distratta. Gnorsì, distratta! E poi diciamo che sono contrariato, semplicemente contrariato e perplesso. Perché? Ma perché non credo che l'umanità possa mai camminare sulla testa, sulle idee della mente, come pretende Cartesio. Anche perché a quel punto si verrebbe a creare un serio problema occupazionale in questa città che di problemi ne ha già tanti. E che verrebbe a succedere, dire voi? Se ci mettiamo a camminare con la testa, che fine faranno tutt' 'e solachianielle 'e Napule e dintorni?

 

 

FINE